(di Andrea Bisicchia) I riti di iniziazione appartengono a culture e religioni diverse, tanto che, spesso, hanno a che fare col sacro e rimangono tali finché non vengono assoggettati a culture desacralizzate, a causa delle quali, sono destinate o a sparire o a mutare concettualmente. Gli antropologi, da tempo, hanno affrontato questo trapasso e si sono impegnati a descrivercene le trasformazioni, convinti che, in ogni rito di iniziazione, il neofita tenda a diventare un altro. Questo accade nelle famiglie che vivono ancora in una situazione tribale, ma anche nelle famiglie mafiose e, aggiungo io, in quelle teatrali.
Partecipare a un lungo laboratorio teatrale, tenuto da un grande maestro, è come partecipare a un vero e proprio rito di iniziazione, tanto che il giovane attore neofita, alla fine, ne esce “mutato”.
Stefano Allovio, docente di antropologia culturale e antropologia sociale, ha scritto, per Cortina, “Riti di iniziazione. Antropologi,stoici e finti immortali”, nel quale alterna le due competenze, quella di antropologo puro e quella di antropologo sociale, cercando di estendere le sue scoperte all’oggi, attraverso comparazioni tra le varie culture e le conseguenti trasformazioni. I riti di iniziazione sono concepiti come riti di trasformazione, ogni società ne contempla uno proprio che, spesso, riesce a contagiare quello di chi sta molto vicino.
Questo accade sia in alcune tribù della Nuova Guinea, del Sud Africa, del Nord America, sia in società meglio strutturate. In tutte, però, qualsiasi rito di iniziazione contempla un processo di rinnovamento, non solo per chi è sottoposto, ma anche per chi si sottopone, tanto che il rapporto tra il neofita e il Maestro diventa un rapporto di interscambio, nel senso che colui che sottopone mette il suo sapere al servizio del sottoposto, creando una specie di simbiosi. Allovio arriva a ipotizzare l’idea che, persino gli antropologi, durante il lavoro di ricerca, percepiscano un rapporto iniziatico alla loro stessa professione. L’autore cita più volte Turner e la sua teoria dei “riti di passaggio”, per evidenziare il potere trasformativo del processo iniziatico, grazie a una frequentazione continua del “campo” di ricerca che vuole dire anche immersione in una scatola di attrezzi concettuali ai quali si deve il rito relazionale.
Sempre per rimanere nel “campo” teatrale, l’attrezzeria, curata dal direttore di scena, ha una sua concettualità, essendo quella che permette, allo spazio scenico, di sottoporsi a una particolare impaginazione. Allo stesso modo, l’esperienza corporea che, nel rito di iniziazione, è vissuta sotto forma di violenza, di dolore, di sofferenza, diventa, durante la preparazione di uno spettacolo, espressione corporea dell’attore, ovvero il mezzo per una immersione iniziatica all’interno del personaggio. Il corpo, del resto, cambia fisicamente ed emozionalmente in tutti i riti di iniziazione, libero di plasmarsi a seconda delle circostanze e delle resistenze al dolore, nel quale ritrova un “potere santificante”, perché, come osserva Durkheim, nel modo con cui l’iniziato sfida il dolore manifesta meglio la sua grandezza che è anche una sfida alla mortalità, in quanto si eleva al di sopra di sé.
Stefano Allovio, “Riti di iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali”, Cortina Editore, 2015, pp.172, € 18