(di Marisa Marzelli) È il penultimo dei candidati come miglior film all’Oscar 2016 ad uscire nelle nostre sale (manca solo Brooklyn, in arrivo dopo metà marzo). Room è un piccolo film, realizzato senza star e grossi capitali ma con intelligenza e passione. A raggiungere il grande pubblico internazionale hanno aiutato l’opera di Lenny Abrahamson, la vittoria al Toronto Film Festival, la conquista degli Independent Spirit Awards e quattro candidature all’Oscar (poi vinto dalla protagonista Brie Larson). E al pubblico piace (al 94% sul sito specializzato RottenTomatoes) questo piccolo Davide tra i Golia dell’industria degli effetti speciali. Colpisce in particolare il punto di vista del racconto (tutto è descritto nell’ottica e con la comprensione di un bambino sveglio di cinque anni), che arricchisce il plot di significati e sfumature di più ampio respiro.
Alla base c’è un romanzo dell’irlandese Emma Donoghue (sceneggiatrice e co-produttrice del film) che s’ispira al caso Joseph Fritzl, un austriaco che tenne segregata per 24 anni la figlia in un bunker nel seminterrato di casa.
Ma Room non parla esplicitamente di sequestri e violenze compiuti da insospettabili. Anzi, all’inizio non sono subito chiari gli antecedenti del racconto. Una giovane donna vive in una stanza con il suo bambino Jack, che sta per compiere cinque anni. Ma sulla torta di compleanno non ci sono le candeline, e a Jack dispiace. La mamma gli ha raccontato che il mondo è tutto in quella stanza; fuori non c’è niente, ciò che Jack guarda sulla vecchia televisione è inventato, una favola. Le uniche realtà sono la stanza e gli oggetti che contiene,la luce che arriva dal lucernario e la mamma, che si chiama Joy. C’è anche Old Nick, che di notte viene a far visita alla mamma, ma Jack deve andare a dormire nell’armadio e non sa che cosa facciano. Tutto è filtrato nell’ottica del bambino, che parla anche con voce off. Mentre lo spettatore, fatti due conti, capisce che la ragazza è stata rapita sette anni prima da Old Nick e che Jack è il figlio delle violenze. Joy ha già tentato di fuggire, ma la porta è chiusa elettronicamente e lei e il figlio dipendono per la sopravvivenza dall’uomo, che regolarmente porta il cibo. Però adesso Joy deve far scappare Jack. Lo si capisce dalle letture della madre al bambino, non solo Alice nel paese delle meraviglie ma anche Il conte di Montecristo. Prima però deve riuscire a smantellare tutte le idee che ha inculcato nel figlio. Deve spiegargli che fuori esistono altre persone alle quali bisogna chiedere aiuto. Il piccolo è un po’ confuso, ma attratto dal “gioco”. Così, prima fingendo che abbia la febbre alta, poi che sia addirittura morto, la madre lo avvolge ben stretto in un tappetto e convince Old Nick a sbarazzarsi del corpo. Madre e figlio hanno fatto le prove: appena l’uomo caricherà il presunto cadavere sul pick-up, Jack dovrà aspettare che il veicolo rallenti, saltare fuori e chiedere soccorso al primo che incontra.
Questa è solo la prima parte del film, narrativamente un thriller, a livello simbolico la scoperta da parte del bambino dell’esistenza di qualcosa al di fuori di sé e delle sue sole esperienze, un universo parallelo che si chiama vita reale.
Nella seconda parte – del tutto speculare alla prima – dopo la fuga riuscita, con intervento della polizia che libera anche Joy e arresta il sequestratore, il ritorno alla normalità rappresenta un nuovo trauma. Per la donna, che ritrova situazioni mutate rispetto a quando è stata rapita (i genitori si sono separati, il mondo è andato avanti senza di lei) e per il bambino, che ha mille cose da scoprire e a cui adattarsi. Per quanto Jack sia ancora piccolo (ma è pur cresciuto solo con un adulto e quindi ragiona già da adulto) ha intrapreso un percorso di crescita che di solito arriva con l’adolescenza e, come tutti i bambini, è adattabile e pronto a imparare. Per lui è più facile superare lo shock, mentre la madre è arrabbiata, depressa, sulle prime incapace di ritrovare un equilibrio. Ma il loro forte legame affettivo li aiuterà. Il finale, che chiude lo sviluppo di un pensiero circolare (più tipico della letteratura che del cinema) riporta le due vittime sul luogo del delitto, il capanno nel giardino di casa di Old Nick, ormai smantellato. Un incubo che non deve fare più paura perché è stato superato.
Room è un film dai significati stratificati. Ci si può accontentare del livello narrativo, ben sviluppato, con empatia e grande coinvolgimento emotivo senza voler diventare strappalacrime. O si può leggervi molto altro, dall’iniziale confusione dell’universo infantile, che deve abituarsi a non confondere il reale con il fantastico, al superamento (e relativa rinascita) dopo un trauma. Ad altri temi psicologici come la rilevanza degli spazi interiori e al contempo l’importanza degli stimoli esterni, lo spirito di sopravvivenza, la voglia di combattere, la scoperta del mondo dopo aver lasciato la stanza psicologica a cui si è abituato il cervello, il simbiotico rapporto madre-figlio, la realtà vissuta come prigione o come spazio di libertà. Insomma, con pochissimo, il film di Abrahamson galoppa e schiude gli scenari della mente con emozione, molto tatto e mezzi ridotti al minimo.
Strepitosi i due protagonisti. Brie Larson appartiene ad una nuova generazione di attrici forti e determinate; il piccolo Jacob Tremblay dai capelli lunghissimi è spontaneo, espressivo ed evita il fastidioso effetto del bambino-attore che imita gli adulti.
Room è un film che parla alle esigenze emozionali di una vasta platea senza rinunciare ad un competente utilizzo del linguaggio per immagini. Dosando primi piani, spazi ristretti, attenzione ai dettagli, osservazioni collaterali; senza far mai calare il ritmo per due ore.
Una mamma, segregata da anni con il suo bambino, tornata libera, ha un nuovo trauma. La vita reale non è più la stessa
6 Marzo 2016 by