Una ripresa con nove camere, effetti speciali, prospettive audaci. Insomma un “Macbeth” rivoluzionario. Per la TV

MILANO, mercoledì 8 dicembre ► (di Carla Maria Casanova)Sarebbe stata la mia 61.ma inaugurazione scaligera “in presenza”. Ma oramai il record l’ho battuto nel 2019 e allora pazienza.
Una serata diversa da tutte, questa di sant’Ambrogio, dopo la lunga abominevole attesa dovuta al Covid e tutte le restrizioni che hanno mandato in tilt larga parte della popolazione. Ci sarà stata una atmosfera speciale. Già si è avvertito nell’applauso che ha accolto il presidente Mattarella (8 minuti) e le grida di bis (non prudenti anticipazioni sull’esito dello spettacolo: il bis alludeva all’eventuale secondo mandato di presidenza, al quale comunque Mattarella ha già da tempo risposto di no). Dal palco presidenziale anche Mattarella applaudiva e siccome a lui era rivolto anche dal podio il direttore, stavano tutti e due a guardarsi e non succedeva niente. Finché, sempre voltando le spalle all’orchestra, Chailly ha dato l’avvio all’Inno nazionale e tutto ha avuto inizio.
Ora, avendo assistito allo spettacolo alla TV, ritengo che questo Macbeth sia più godibile proprio dallo schermo, per il quale è stato concepito e creato. L’attrezzatura, con l’aiuto di 9 camere con operatore sistemate per ogni dove, ha permesso effetti speciali, molte riprese dall’alto, come da droni invisibili e indiscreti. Per esempio, quella della scena del Sonnambulismo, che Lady Macbeth canta sul ciglio del balcone all’ultimo piano del suo palazzo, mentre si intravvede, a strapiombo laggiù nella via, il traffico delle macchine. Si deduce che la Lady si butti poi giù.
Ero prevenuta, temendo gli orridi eccessi dei Fura dels Baus, che con l’opera lirica fanno disastri persino in Arena. Ma David Livermore, ex tenore diventato in pochi anni un asso pigliatutto come regista (quarto spettacolo scaligero) ha elaborato una chiave interessante e accettabile. Sì, Livermore ha sconfinato temerariamente nel digitale, con effetti speciali, solvenze, proiezioni. Ha spiegato: “Per me significa lavorare per la contemporaneità, restituire il senso rivoluzionario e tuonante di un’opera: alla musica di Verdi, alla narrazione di Shakespeare, al libretto di Piave. Questo Macbeth è distopico. Mi sono ispirato a Inception di Nola. Non è una ricostruzione storica”. Sfido chiunque ad aver capito. Invece poi si capisce che cosa Livermore intende con la sua regìa: raccontare la scalata al potere attraverso sangue e infamia, interpretare oggi il senso di “patria oppressa”. Lo ha fatto seguendo la musica, la narrazione, il libretto. Magari a me sarebbe piaciuta di più l’ambientazione storica (Scozia, secolo XI). Ronconi ed altri ci sono riusciti, senza ossequiare la banale tradizione. Ma insomma, non si può avere tutto.

Mattarella:. otto minuti di applausi (e… incoraggianti voci di “bis”, perché non si ritiri dalla presidenza della Repubblica).

La scena si apre su un livido nebbione che filtra attraverso altissimi fusti di piante. C’è una sinistra macchina ferma, a fari accesi, le portiere spalancate. Lì intorno i due amici, Macbeth e Banco (camorristi? mafiosi? delinquenti comuni?) hanno compiuto una carneficina. Poi, sempre loro, incappano in un nutrito gruppo di persone, tipo operai di una fabbrica in sciopero. Alcune donne (senza le “sordide barbe” del libretto) fanno ai due gaglioffi curiose profezie. L’auto attraversa quindi una città grondante grattacieli e approda alla lussuosa hall di un palazzo primo Novecento (bellissime scene di Giò Forma. I costumi sono di Gianluca Falaschi). Lì, li attende una equivoca signora con sigaretta e classico bicchiere in mano. Indossa un brutto abito rosso con vistose applicazioni di aironi bianchi e oro. Una sorta di improbabile divisa di ussaro con fantasiose mostrine. Manca solo la classica stola di volpe nera al collo… No. Ci sarà anche quella. Lei è lady Macbeth. Pochissimo lady, come si è capito. (Pare difficile concepire per la Netrebko un costume accettabile. Anche quello di Tosca non scherzava).
La storia continua così, con la realizzazione di scene grandiose, di avvincente taglio teatrale. Le luci sono di Antonio Castro. Macbeth e la Lady, coniugi diabolici, progettano di uccidere il re Duncano, in prossimo arrivo. Prima del delitto, forse per darsi coraggio si accoppiano velocemente su un divano. Particolare non indispensabile. Si accoppieranno anche, in ascensore, prima della morte.

E tutti felici al sipario finale.

Il grande ascensore aperto, sorta di gabbia claustrofobica al centro della scena, sarà la cifra costante dell’allestimento, tecnicamente ineccepibile, dove transitano, in su e in giù, tutti i protagonisti dell’opera nei momenti cruciali della vicenda. L’idea è intenzionale: ascesa e caduta dal potere. Le danze, mantenute in questa edizione di Macbeth, sono assicurate dalle coreografie astratte di Daniel Ezralow.
Macbeth (Firenze 1847, primo rifacimento Parigi 1865, secondo rifacimento Milano 1874) catalogata nel terzetto delle opere giovanili di Verdi, è una tragedia immane, una catastrofe cosmica, compendio delle umane miserie che fanno capo ai due scellerati protagonisti: Macbeth e Lady Macbeth. Si sa che Verdi per la Lady chiese una voce “anche brutta” purché potesse esprimere tutte le atrocità che andava tramando. È stata scelta qui Anna Netrebko, soprano dalla voce grande e molto bella. Anche il suo viso pacioso di florida bellezza non suggerisce nessun terribile proposito. Lo stesso per Luca Salsi, omone nostrano con voce importante per colore e robustezza, ma Macbeth era un aristocratico al cui castello re Duncano (e mal gliene incolse) chiese di pernottare. L’interpretazione scenica (o meglio il physique du role) dei due cantanti, che pur ce l’hanno messa tutta, mi è parsa poco confacente ai rispettivi personaggi, senza nulla togliere alla loro eccellente resa vocale. In teatro le mimiche non si notano né si esige tanto, ma l’impietosa crudeltà dei primi piani cinematografici mettono tutto in inesorabile evidenza. Appropriati ai rispettivi ruoli sono lo splendido Ildar Abdrazakov (Banco), il rigoroso ed elegante Francesco Meli (Macduff) ed anche, nella piccolissima parte di Malcolm (il figlio di Banco che, come da profezia, sfugge al tiranno e diventa re) il tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, che ricordiamo quale duca di Mantova nel trasgressivo Rigoletto di Michieletto al Circo Massimo.
Sopra a tutti è valsa la bacchetta di Riccardo Chailly. Chailly (che ha diretto tutto con la mascherina!) pare essersi definitivamente arreso alla tecnologia con la quale alcuni anni fa aveva realisticamente ammesso di intrattenere un “rapporto scomodo” considerandola valida come “conquista straordinaria per la archeologia spaziale” mentre la riteneva inaccettabile in campo teatrale, almeno per quanto riguardava il repertorio tradizionale. Bene per “Il gran sole carico d’amore” di Luigi Nono, dove le immagini avveniristiche completavano i suoni della partitura dodecafonica, ma con Verdi o Puccini, che si fa?  E poi si scopre che fare si può. Con il dovuto rispetto si riesce persino a conservare una certa magia.
Al verdiano Macbeth, già magnificamente inciso oltre trent’anni fa, allora con l’orchestra del Comunale di Bologna (nel 1986, e ripreso in film nel 1987), Chailly ha dato ora una versione psicologicamente più matura, con struggenti sospensioni melanconiche che si alternano a uno spessore tragico di forte impatto. L’orchestra della Scala lo ha seguito con entusiasmo. Così come ha mantenuto il suo alto livello il coro, guidato da Bruno Casoni.
Apertura della Scala (dopo?) il Covid. È stato un successo imponente: i presenti dicono con qualche “buu” per la regia.

TEATRO ALLA SCALA – REPLICHE: venerdì 10, lunedì 13, giovedì 16, domenica 19 (ore 14.30), mercoledì 22, mercoledì 29 dicembre