(di Marisa Marzelli) Non mi sono mai piaciuti quei critici accigliati che nei vecchi western contavano i colpi per poter dire che la scena era irrealistica in quanto una pistola non può sparare tanti proiettili senza venire ricaricata. Il cinema action popolare è il regno moderno della fantasia, della libertà di sfuggire alla logica e persino alla forza di gravità. L’hanno capito i fan della serie Fast and Furious, giunta al settimo e sinora migliore episodio di una serie esagerata e fuori di testa, iniziata per conquistare gli appassionati di donne e motori e approdata a questo episodio frenetico, caciarone, assurdo ma anche commovente. Tamarro eppure delicato. Vedere per credere. Ma se non si è disposti a lasciarsi conquistare dall’eccesso spudorato di sequenze di altissimo virtuosismo tecnologico e al contempo di sentimenti e umorismo elementari, meglio astenersi. Chi non è un estimatore è escluso dal club di Fast and Furious, benedetto dal botteghino (gli episodi precedenti hanno incassato nel mondo quasi due miliardi e mezzo di dollari).
Nata nel 2001, dopo qualche iniziale cambio di direzioni narrative, la serie si è stabilizzata sulle avventure dell’organizzatore di corse automobilistiche clandestine Dominic “Dom” Toretto (Vin Diesel) e della sua “famiglia”, costituita dalla banda di parenti e amici che lo seguono fedelmente da una pellicola all’altra. Il franchise aveva il vento in poppa finché – per una beffa del destino – il coprotagonista Paul Walker (attore di precedente modesta fama, diventato star nel ruolo dell’ex-agente FBI Brian O’Conner, amico fraterno e cognato di Toretto) il 30 novembre 2013 è morto in un incidente automobilistico, e nemmeno era lui al volante. A riprese del settimo episodio da poco iniziate, la produzione ha dovuto scegliere: annullare la realizzazione o inventarsi qualcosa per sostituire Walker. La soluzione più semplice sarebbe stata quella di far morire il personaggio nelle scene iniziali. Invece, lavorando con la computer grafica, ingaggiando i fratelli dell’attore scomparso come controfigure, Fast and Furious 7 si è trasformato in un sentito omaggio a Walker, con un finale struggente che mescola realtà e finzione in un lungo addio meta-cinematografico. Una conclusione toccante nella sua semplicità. Con in sovrimpressione la dedica finale “a Paul”.
Fast and Furious 7 risulta un film compatto nella sua follia visiva, mostrando come il cast e il reparto tecnico si siano impegnati, come una vera “famiglia”, per portare a termine una mission impossible. Potenziando elementi già sperimentati in precedenti tappe narrative, come le dinamiche all’interno della squadra, il riagganciarsi e ripartire da fatti avvenuti in capitoli precedenti (che gli appassionati conoscono a memoria, senza bisogno di riepilogo), con il pedale dell’acceleratore a tavoletta per raggiungere l’ebrezza dell’intrattenimento più adrenalinico. Mai come in questo sequel Fast and Furious si avvicina alla struttura episodica dei James Bond (location in giro per il mondo, armi e scontri di ogni tipo ma anche abiti da sera).
Per far fronte alla vendetta del cattivissimo di turno, Toretto e company si alleano con un misterioso e potente agente governativo allo scopo di ritrovare un hacker rapito, inventore di un sistema per localizzare chiunque in qualsiasi parte del globo. Ma la coerenza del plot non è e non ha mai voluto essere un punto forte della serie, piuttosto un pretesto per sequenze mirabolanti. Qui si va dai guidatori a bordo dei loro bolidi scaricati in volo da un aereo-cargo e che toccano terra col paracadute, alla fuga da un bus che sta cadendo in un precipizio correndo in senso inverso sul tetto.
Cast, come sempre, disposto all’autoironia di chi esce senza un graffio da situazioni che demolirebbero un carro armato. Accanto a Vin Diesel (anche produttore), maschio alfa dalla recitazione monoespressiva, la sua donna interpretata da Michelle Rodriguez, una combriccola multietnica con funzione decorativa o di alleggerimento comico, l’alleato Dwayne Johnson-“The Rock” in versione incredibile Hulk (citato in uno spezzone che passa in tv), il villain Jason Stathman e – new entry – Kurt Russell, eroe di film d’azione anni ’90, come il leggendario 1997: Fuga da New York di John Carpenter, dove, benda su un occhio, sibilava ai nemici: “chiamami Jena”. Fa malinconia ritrovarlo funzionario federale in età da pensione, che comunque non scorda di indossare il giubbotto antiproiettile e di fare battute. Il resto sono accelerazioni improvvise, derapate, duelli tra auto che si accartocciano in un frontale, mentre i guidatori escono giusto con qualche livido, che nemmeno si vede perché ci sono i tatuaggi.
Dopo quattro episodi di fila diretti dal taiwanese Justin Lin, ora la regia è passata a James Wan, un malese di origine cinese naturalizzato australiano, noto per la realizzazione di horror, un settore più di nicchia. Non è un caso che, con il progredire dei successi, la regia della saga sia passata in mani asiatiche. Il cinema asiatico vanta una grande tradizione nel saper coreografare la violenza d’azione, che unita alle risorse tecniche statunitensi crea un mix di estetica postmoderna.
Una serie esagerata, fuori di testa, ma il settimo episodio li batte tutti: frenetico tamarro spudorato. Da non perdere!
2 Aprile 2015 by