(di Andrea Bisicchia) Perché abbiamo sempre bisogno del mito? Perché cerchiamo di adattarlo ai nostri desideri, ai nostri bisogni, alle nostre attese? È facile dire che i miti rappresentano i nostri archetipi, secondo la vulgata psicoanalitica, mentre risulta meno prevedibile affermare che, nelle loro trame, vanno ricercate le fonti del nostro linguaggio, oltre che della nostra brama di raccontare, come dire che la vita, senza narrazioni, non potrebbe essere vissuta.
Ha ragione Maurizio Bettini, nel volume “Il grande racconto dei miti classici”, Il Mulino, quando sottolinea la forza narrativa del mito, grazie alla quale esso può sottoporsi a una serie infinita di varianti.
Come nasce il mito? certamente dall’impulso che l’essere umano ha, non solo di immaginare, ma anche di raccontare storie intessute di avventure fantastiche, continuamente arricchite di episodi che, col passare degli anni, si sottoponevano a continue sovrapposizioni, tanto da non riconoscere nel mito una forma unica e che la sua “natura molteplice” generasse una continua “varianza” dovuta al suo voler essere narrata all’infinito. I racconti, pertanto, non pretendevano di essere unici, anzi si adattavano alla pluralità, a percorsi differenti, a essere ri-raccontati, come si può constatare dall’uso che ne è stato fatto lungo i secoli, col ricorso a generi diversi, dal teatro alla poesia, alla musica, fino alla pubblicità e al fumetto.
Perché tutto questo è stato possibile? Perché la cultura classica non possiede la cultura del Libro, come quella ebraica, cristiana e islamica, è libera dai dogmi e procede, non tanto attraverso le interpretazioni dei versetti, quanto attraverso il gioco delle variazioni, libera da ogni assimilazione religiosa, essendo la religiosità classica anch’essa molteplice, nel senso che non adorava un solo Dio e non possedeva una sola versione della verità, proprio perché costruita su una molteplicità di racconti indipendenti da qualsiasi pratica religiosa. Il suo rapporto col divino era di carattere rituale, una pratica comune a tutte le religioni delle origini.
Bettini sostiene che il mondo antico è il luogo delle contaminazioni, degli scambi non solo delle idee, ma anche di culture. Accade, così, che certe versioni della Bibbia si ritrovano tali e quali nei racconti delle origini. Si narra infatti che Prometeo avesse creato l’uomo impastando acqua e fango, come nella tradizione cristiana, e che la nascita di Pandora non fosse dissimile da quella di Eva, essendo entrambe portatrici di male. Anche questa versione apparteneva alla vulgata misogina antica, secondo la quale, la donna era considerata portatrice di sventure. Si trattava, forse, di pregiudizi legati alla salvaguardia della stirpe, infangata dalle menzogne e dai tradimenti delle donne.
Una cosa è certa, in tempi recenti, si è cercato di arricchire i miti con significati che non possedevano alle origini, così il dialogo col passato si è sempre fatto più fitto, con lo spostamento dell’interesse, dal piano dei racconti a quello delle spiegazioni moderne che non fu accolto da Kàroly Kerényi in “Gli dei e gli eroi della Grecia”, il Saggiatore, essendo il grande studioso più propenso ai rimandi psicologici, per potere risalire all’infanzia della psiche, tanto da rintracciare nella mitologia una vena creativa, oltre che artistica della psiche. Bettini, più che la scia di Kerényi, segue quella di Vernant autore di “L’universo, gli dei, gli uomini”, Einaudi, e si pone, nei confronti dei racconti mitici, con l’atteggiamento del cantastorie, fino a diventare lui stesso un attento narratore degli infiniti personaggi che attraversano “il grande racconto dei miti classici”.
Il volume si caratterizza per una raccolta iconografica che non ha precedenti, per la raffinata qualità editoriale e per la scelta accurata delle immagini.
Maurizio Bettini, “Il grande racconto dei miti classici”, Il Mulino, 2015 , p. 500, € 48.