Un’illuminante rilettura. Dall’ovattata repressione della DC all’elegante sistema di strozzare il Teatro con la burocrazia

franco quadri collage(di Andrea Bisicchia) Sono passati appena sei mesi dalla pubblicazione del Decreto Ministeriale che regola i contributi del Fus e mi sembra di essere tornato alla Legge Corona del ’68, nata sulla scia della rivoluzione sessantottesca che generò una svolta significativa, di cui ancora oggi si avvertono le conseguenze.
Come allora la Legge Corona, anche oggi il Decreto ha diviso i teatranti ai quali si richiedono le stesse cose: qualità, coerenza, progettualità, managerialità. Forse, rispetto a ieri, si può distinguere tra un teatro necessario e uno non necessario, visto il boom di compagnie che hanno generato l’eccesso del superfluo.
Alla luce di simili considerazioni, ho riletto, come metodo critico, “Il teatro del regime” di Franco Quadri, Mazzotta,1976, con i contributi di Roberto Agostini, Patrizia Rossi, Italo Moscati, Antonella Cremonese, Dario Fo, ben diverso dal teatro di regime, asservito completamente al potere, perché, quello a cui allude Quadri, è un regime ovattato, attento a reprimere spettacoli invisi alla DC e alla Chiesa, dopo che, nel ’62, era stata abolita la censura.
Tra il 1968 e il 1974, Agostini enumera oltre 40 spettacoli sottoposti al potere della censura che avveniva attraverso il controllo dei permessi di agibilità, l’autorizzazione Empals, la supervisione dei copioni e l’elargizione dei finanziamenti che ricorreva a criteri paternalistici e molto discrezionali, legando, in questo modo, le attività teatrali alla burocrazia, sempre presente con le famose “Circolari” che non nascondevano la predilezione verso gli Stabili, mentre accettavano, con riserva, le Compagnie a gestione cooperativistica. Quadri, nel saggio introduttivo, offre un panorama ben circostanziato di quegli anni, dandoci il senso di un’epoca. Si sofferma sui prodotti mercificati o prefabbricati degli Stabili, sulle cooperative autogestite, sul decentramento, sulla “censura invisibile”, sui controlli della DC, sull’evoluzione del “Teatro marginale” e su come il sistema politico tendesse a rafforzare il teatro già esistente, condannando l’altro a penosi iter burocratici. La sola maniera per evitarli era quella di praticare una nuova gestione degli spazi, concepita come autogestione, come Collettivo, come La Comune, maniere attuate da Dario Fo che recitava in tutti i luoghi possibili e immaginabili, col sostegno degli studenti e degli operai, quelli stessi che vedevamo stare insieme durante i comizi sindacali e le manifestazioni di piazza.
Oggi la burocrazia è ritornata a vincere, l’aria sessantottesca è solo un ricordo, dato che si accetta tutto. E’ sufficiente cambiare i nomi, chiamare Nazionali, gli Stabili, magari riducendone il numero oppure definire TRIC (Teatro di Rilevante Interesse Culturale) gli Organismi stabili, per nascondere, paradossalmente, il disagio economico in cui versa il teatro, benché lo si consideri un’impresa, con capacità imprenditoriali. Il problema è come far quadrare il bilancio con imprese destinate a continue insicurezze economiche, per non parlare delle difficoltà del Teatro marginale a cui faceva riferimento Quadri.

Franco Quadri, “Il teatro del regime”, Mazzotta Editore, 1976, pp 160