Uno scottante scoop giornalistico sul presidente George W. Bush. Si risolse in un fiasco. E caddero teste di firme illustri

TRUTH_3(di Marisa Marzelli) La battuta più famosa del filone giornalistico, al cinema, resta “È la stampa, bellezza!… e tu non ci puoi fare niente” pronunciata da Humphrey Bogart. A quale film appartenesse pochi lo ricordano (L’ultima minaccia di Richard Brooks, 1952), ma nell’immaginario collettivo quella piccola frase è diventata il marchio del giornalismo inteso come quarto potere, idealizzato cane da guardia della democrazia.
Oggi il giornalismo classico, quello cartaceo, è andato in crisi, l’iper informazione elettronica diventa disinformazione, sulla rete chiunque può scrivere quasi qualsiasi cosa, senza preoccuparsi né di verifiche, né di censure. Il cinema ne ha preso atto e da un pezzo i giornalisti – un tempo insieme a poliziotti, medici e avvocati erano eroi – sullo schermo compaiono poco e quasi sempre come accozzaglia di assatanati a caccia di qualche malcapitato finito nelle maglie della cronaca nera. Ma corsi e ricorsi storici si alternano.
Una riflessione sul ruolo della stampa nel terzo millennio torna ora d’attualità con due titoli americani appena usciti. Uno è Spotlight (su come nel 2001 il Boston Globe denunciò i preti pedofili della diocesi), da poco oscarizzato come miglior film dell’anno; l’altro èTruth (Verità), debutto alla regia dello sceneggiatore James Vanderbilt, noto per la scrittura di Zodiac e di blockbuster di supereroi come The Amazing Spider-Man.
Entrambi ispirati a fatti reali, entrambi acuta riflessione sulla ricerca della verità, irta di ostacoli, compromessi e mai definitivamente univoca. Se in Spotlight l’inchiesta si rivela vincente, in Truth lo scoop finisce in un fiasco e cadranno le teste dei giornalisti televisivi che l’hanno messo in piedi.
Siamo nel 2004, alla vigilia delle presidenziali. George W. Bush è in corsa per la rielezione. Alla rete televisiva CBS hanno per le mani un servizio esplosivo: nel ’71 Bush junior prestò svogliatamente servizio militare nella Guardia Nazionale evitando, grazie a coperture e raccomandazioni, di andare a combattere in Vietnam. L’inchiesta è potenzialmente una bomba elettorale. Se ne occupano la produttrice Mary Mapes (sulla cresta dell’onda perché da poco ha portato alla luce lo scandalo del carcere di Abu Ghraib) e il suo mentore, il celebre anchorman Dan Rather. Trovare le prove risulta da subito complicato e c’è poco tempo per approfondire. Ma le testimonianze raccolte sembrano solide e la notizia va in onda. A questo punto si scatena la rete, mettendo in dubbio che i documenti probatori siano autentici. Attenzione: nessuno si sofferma sul fatto che Bush si sia davvero imboscato oppure no (comunque a combattere in Vietnam non è andato), ma si insinua che i documenti siano stati fabbricati al computer e non siano prove autentiche. Nell’impossibilità di produrre le carte originali, mentre i testimoni cominciano a ritrattare e la commissione delegata a stabilire la verità sul caso prende tempo aspettando l’esito delle votazioni per la Casa Bianca, la CBS non appoggia più i suoi giornalisti e finisce per ammettere l’errore. Mary Mapes sarà licenziata, Dan Rather darà le dimissioni dopo 40 anni da principe dei commentatori.
Una verità definitiva dal film non emerge. Anzi, in America molti l’hanno tacciato di ambiguità e parzialità perché la sceneggiatura è basata sul libro di memorie scritto dalla Mapes, Truth and Duty: The Press, The President and The Privilege of Power, una visione di parte. Ciò non toglie che Truth sia avvincente come un thriller politico e metta in luce vari aspetti interessanti, dalle pressioni e gli interessi a cui è sottoposta un’inchiesta giornalistica scottante al ruolo di internet nel determinare opinioni e decisioni. Di solido impianto tradizionale, molto parlato, il film poggia sulle interpretazioni di tutto rispetto di Cate Blanchett (la produttrice Mapes) e di Robert Redford (Dan Rather). Proprio la presenza di Redford, testimonial d’eccezione di una stagione cinematografica appassionata al valore civile delle storie raccontate, quella degli anni ’70, ci ricorda il piglio di pellicole della New Hollywood di allora come Tutti gli uomini del presidente sul caso Watergate. Erano altri tempi, altro giornalismo e altra opinione pubblica.