Uno spettacolo al Teatro Studio, in onore del “maledetto” Baudelaire. In buona compagnia con Dante e con i Greci

MILANO, giovedì 12 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) Charles Baudelaire, autore dell’unico e fondamentale libro di poesie, “Fleurs du mal” (1857), è fra le più alte espressioni della poesia europea di tutti i tempi. Ebbe il trascinante e suggestivo fascino di involontario caposcuola in una confraternita di “maledetti”, da Verlaine a Mallarmé, a Rimbaud.
Lui, Charles, il “maledetto” per antonomasia, tanto che il suo libro dovette subire un processo per immoralità. Che ne aumentò la fama.
La maledizione, che Baudelaire si portava addosso, nasceva dalla sua ripugnanza per la vita borghese, con il suo nero seguito di angoscia, disgusto, malinconia. Per la noia, insomma, che Charles aveva coniato dall’inglese “spleen”, “umore nero”. Un termine medico entrato poi nel vocabolario d’uso comune. Alla base di tutto, c’era in Charles il sentimento della caduta, il senso di una battaglia persa, tra la carne e lo spirito, dell’inferno contro il cielo, di Satana contro Dio.
Intravedendo però un’unica via di salvezza nella la bellezza, anelito di speranza, ultimo doloroso rifugio del poeta.
La bellezza eterna e l’arte “che ne è il suo riflesso”, unica arma contro “la realtà ripugnante del tempo”: vero nemico dell’umanità, un mostro che distrugge la forza vitale.
Le droghe, poi, serviranno a fornire un po’ di fiducia, necessaria per sopravvivere: l’oppio, l’hashish, e, soprattutto, il vino. Sempre con controllata moderazione, solo per raggiungere i mistici e meravigliosi “Paradisi artificiali”, perché “là, tout n’est qu’ordre et beauté, calme et volupté”. Eppure, con la sua straordinaria potenza poetica, fatta di verità e di fascinosi simbolismi, Charles, il poeta maledetto, riuscì perfino a immortalare la bellezza del male. Del male di vivere, di ieri e di oggi.
Questa breve introduzione ci consente di entrare in una triade meravigliosa di poesia, com’è creata e recitata al Teatro Studio, da Toni Servillo, con la regia autorale di mostruosa abilità, dello scrittore Giuseppe Montesano, che ha drammaturgicamente cucito insieme: “Tre modi per non morire: Baudelaire, Dante, i Greci”.
In un monologo di 106 minuti senza intervallo, detti da Servillo al leggio. Niente scenografie, solo luci e un misterico, suggestivo e meraviglioso commento musicale, per lasciare così libero campo ed esaltazione solo alla incontrastata maestà della parola, di un fulgore abbacinante, grazie anche e soprattutto al suo interprete, che ha lasciato da parte la sua istrionica ironia, così malinconica e dolorosa della “Grande bellezza”, per riprendersi in un altro eccezionale versante drammaturgico, di una generosità interpretativa di rara potenza e passionalità drammatica.
Delle tre parti del lavoro di Montesano, quella di Baudelaire occupa lo spazio maggiore. Che volete, il verginale ed angelico Dante come può competere con il “maledetto” Baudelaire, poeta imparentato con noi moderni e con il nostro tempo disperato, come fare paragoni fra il peccaminoso Paradiso artificiale di Baudelaire e le mistiche serenità del Paradiso dantesco?
Diciamo che Dante, qui, scivola via.
Ma poi il monologo si rifà potentemente con i Greci, che già duemilacinquecento anni fa inventarono la logica, la filosofia e la cultura, prevedendo fin da allora il fallimento dell’uomo nella sua attuale disperazione di un mondo senza anima, senza creatività, schiavo della dittatura tecnologica, dove il digitale ha preso il posto della libertà, della verità, dei sentimenti, ed ora l’angoscia e il suo spleen hanno scavato una irrimediabile fossa di angoscia, di orrori, di noia. Ed ogni ricerca di bellezza e di libertà è diventata inutile. Pax.
Entusiastici applausi finali, e un’intima soddisfazione, o una speranza, o un’illusione: il teatro ha dimostrato che sa ancora parlare al suo pubblico. Una specie di rinascita?
Si replica fino a domenica 22.