Vendetta e senso di colpa nell’incubo dell’“Oldboy” Josh Brolin

Josh Brolin in “Oldboy” di Spike Lee

Josh Brolin in “Oldboy” di Spike Lee

(di Paolo Calcagno) La vendetta e il senso di colpa, l’interno e l’esterno dell’esistenza, la famiglia come riferimento smarrito e/o corrotto, l’istinto animalesco come facoltà assopita di cui si raccomanda il recupero, eppoi la violenza: quella apparente che urta e disturba con le sue deflagranti manifestazioni e quella soggiacente dei linguaggi e dei valori imposti che ci schiaccia nell’incubo più infimo e terrificante del lato oscuro del nostro quotidiano reale. Infine, il bisogno e la qualità dell’amicizia, il potere della Tv e la sua manipolazione, la sofferta via della redenzione e tanto, tantissimo, Cinema di elevata qualità. Sono questi gli ingredienti, i mezzi e le finalità di “Oldboy”, eccellente nuovo film di Spike Lee, ispirato alla “lurida leggenda” dell’omonima graphic novel giapponese di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi e al magnifico film che ne aveva tratto il coreano Park Chan Wook, vincitore del Grand Prix della Giuria, a Cannes, nel 2004.
Due volte candidato all’Oscar, autore di film oramai storici, quali “Fa la cosa giusta”, “Malcolm X”, “La 25ma ora”, più recentemente a spasso per le vie del grande consumo cinematografico con “Inside Man”, Spike Lee ha condito di azione esplosiva e di thriller labirintico la sua nuova riflessione sulla condotta umana. Il protagonista della versione in salsa americana di “Oldboy” è Joe Doucett, pubblicitario all’ultima spiaggia, alcoolista e puttaniere, separato e padre di una bambina che trascura materialmente (è distratto nel pagamento degli alimenti) e, soprattutto, assente nei momenti cruciali della vita della figlia. Joe, cui dà carne e sangue lo straordinario Josh Brolin (“Non è un Paese per vecchi”), già nominato all’Oscar che meriterebbe largamente, è un uomo qualunque di oltre 30 anni, inappellabilmente alla deriva tra i budelli di una grande città. Una notte, improvvisamente, Joe viene rapito senza saperne il motivo e si ritrova rinchiuso in una stanza d’albergo, in un isolamento totale dal quale è impossibile fuggire. Joe passa le giornate a bere vodka, rifiutando sistematicamente il cibo e senza altra compagnia che la Tv. Anche nella costrizione della prigione Joe conferma la sua tendenza a un’esistenza vuota e superficiale, destinata a sconfinare nell’autodistruzione. Il notiziario locale rivela che la sua ex moglie è stata stuprata e assassinata e che gli indizi conducono tutti a lui, improvvisamente dileguatosi, mentre la figlia, prima rapita, è stata adottata. Il pensiero della figlia spinge Joe a scendere dal limbo dell’ignavia per calarsi nell’inferno di un doloroso processo di redenzione. L’uomo respinge la razione quotidiana di vodka, incomincia a nutrirsi dei ravioli cinesi che prima rifiutava, si prende cura del corpo, si dedica a un piano di evasione e, soprattutto, scrive lunghe lettere, ogni giorno, alla figlia che vuole assolutamente recuperare.
Dopo 20 anni, Joe è ancora prigioniero e ancora non ha capito a chi deve l’odio infinito di una condanna così crudele. Poi, un giorno, Joe si risveglia all’interno di un baule e quando ne esce si ritrova in un grande campo verde, inaspettatamente liberato. Da quel momento, la sua ossessione è di scoprire chi lo ha rinchiuso e per quale ragione. Ma ben presto la sua libertà apparentemente si rivela “una prigione più grande”.
Durante la sua ricerca della verità, Joe incontra la giovane assistente sociale Marie, Elizabeth Olsen (“La fuga di Martha”), rintraccia il suo carceriere, Chaney, un odioso Samuel L. Jackson (“Pulp fiction”), stermina brutalmente chiunque gli sbarri il passo e si ritrova faccia a faccia con il misterioso miliardario Adrian, Sharlto Copley (“Elysium”), l’artefice delle sue pene, che gli concede poche ore per risolvere l’enigma che porta alla sua vera identità e alla scoperta del motivo per cui ha voluto punirlo. Finalmente, Joe Doucett viene a conoscenza di terribili colpe commesse inconsapevolmente, alle quali se ne aggiungeranno altre che non potrà mai espiare. “Non ho mai pensato a “Oldboy” come a un remake – spiega nelle note di regia Spike Lee – Per me, è una grande storia che può essere rappresentata in tanti modi diversi: è una storia particolare, con tutti i migliori elementi del mistero e della vendetta, ritratti nel modo più dettagliato possibile. La gente non aveva mai assistito a qualcosa di simile, neanch’io”. E, certo, Lee non ha trascurato nulla per realizzare un film straordinario grazie, oltre che alle coinvolgenti prove degli attori, alla sceneggiatura di Mark Protosevich, alla fotografia di Sean Bobbitt e al lavoro da premio Oscar della scenografa Sharon Seymour.

“Oldboy”, regia di Spike Lee, con Josh Brolin, Elizabeth Olsen, Sharlto Copley, Samuel L. Jackson. Stati Uniti, 2013