Vien meno la parola? Meglio cambiar pelle. Il teatro allora si veste di musica, luci, fisicità, gag. E al diavolo la parola

MILANO, mercoledì 14 marzo ► (di Paolo A. Paganini) La parola, come veicolo di comunicazione, si sta sempre più standardizzando e impoverendo. Non è una novità. Si parla sempre più come tecnici da videogame, essenzializzando l’aulico stile di grammatici e puristi, visto come pericoloso retaggio di nostalgici parrucconi. Congiuntivi e concordanze sono ormai innocenti vittime della pattumiera giornalistico-televisiva. La ricca parlata italica, i preziosismi stilistici della scrittura, la scomparsa dei dialetti, sopravvissuti qua e là solo come dialettismi, hanno lasciato libero il campo a ogni forma di barbarie anglofona.
Trascurata o eliminata la parola, il primo a rimetterci la pelle o, se preferite, a cambiare pelle, è stato il teatro. Non c’è spettacolo classico d’autore che venga rispettato dai registi, i quali sovrappongono, alla parola originale del testo scritto, incredibili e incomprensibili bardature, svianti invenzioni del loro genio registico, modificando i significati, cambiando i generi con travestitismi di discutibili connotazioni. E lo spettacolo originale non c’è più, il celebrato autore esiliato e la storia deformata in un ghigno o in uno sberleffo. Magari ne vien fuori anche un bello spettacolo variettistico, con gaudiose musiche, suggestive scenografie, seducenti fanciulle discinte. Ma sempre con l’imprescindibile utilizzo dei microfonini guancialici, perché ormai gli attori non sanno più usare il diaframma e la parola si disperde in un incomprensibile borbottio.
Pensavamo a questa dilagante perdita o trascuratezza della parola teatrale, che spesso avviene per la smodata libido di voler cambiare pelle, assistendo a uno spettacolo, innocente ed entusiasta, visto all’Out Off, cioè a “Sulla pelle” di Massimiliano Cividati.
L’argomento “pelle”, l’esterno rivestimento del nostro corpo, in un’ora e dieci è trattato in tutte le sue declinazioni fsiologiche, comportamentali e sociali.
Poteva essere una lezione sulla pelle, come eserciziario scientifico, affidandosi, magari o purtroppo, solo alla parola, con la consulenza di qualche illustre dermatologo. Ma alla parola si crede appunto sempre meno. E allora, impostato massimamente sulla fisicità dei quattro generosi attori, Gaia Carmagnani, Claudia Gambino, Matteo Lanfranchi, Marco Rizzo, si è creato un onesto e qua e là convincente spettacolo teatrale, con una stilizzata ed essenziale scenografia, set designer, con un appropriato utilizzo di suoni e musiche, sound designer, con tanto di make up designer. Eh sì, vuoi mettere come con la definizione inglese sia tutta un’altra cosa?
Ma così facendo, ammesso che interessi a qualcuno, la parola teatrale, come veicolo di comunicazione, è risultata con le gomme a terra, s’è impoverita e standardizzata. Come supplire? Con belle musiche (Giovanni Borelli), scena importante (Marcello Malpighi) e trucco appropriato (Gaspare Tagliacozzi). Lo spettacolo è risultato intelligente e gradevole, in una girandola di felicità attoriale. Qualche ermetismo fa parte del gioco, come lo sketch di chirurgia estetica; ma altri sono di delicata poesia, come il pudore, o la passione, o l’incontro dei sessi, che modificano i ferormoni della pelle, facendole cambiare di colore e di odore eccetera; e altri ancora sono di ludica felicità, come quando la pelle avverte una carezza, o un prurito, o un solletico. Ma la parola, si diceva, che non è più dunque essenziale o necessaria, rimane come emarginata. E i pur teneri monologhi o i dialoghi o le battute, se non vengono detti al microfono ma affidati semplicemte alla voce, si disperdono in un metafisico nulla di fonemi.
Pubblico allegramente partecipe e plaudente alla fine. Si replica fino a domenica 25 marzo.

Teatro Out Off, via Mac Mahon 16, Milano
www.teatrooutoff.it