Vita, affetti e dolori del giovane Fabian. Nella Germania del ’31. Tra gli echi della Grande Guerra e il Nazismo alle porte

Tom Schilling e Saskia Rosendahl

(di Patrizia Pedrazzini) “Fabian – Going to the dogs” è un film tedesco. Molto tedesco. E non solo per la produzione (Lupa Film), per la regia (Dominik Graf) e per gli interpreti (Tom Schilling, Saskia Rosendahl, Albrecht Schuch e tutti gli altri). È tedesco per l’ambientazione: Germania 1931, Repubblica di Weimar.
Per lo stretto legame con le vicende storiche del Paese e la propensione all’analisi socio-politica: i fantasmi della prima guerra mondiale, l’umiliazione e la rabbia, la recessione, l’ascesa del nazionalsocialismo. Non da ultimo, per quella sensazione di incerto, non definito, sospeso, tra la memoria del passato e un futuro ancora tutto da scrivere. E un po’ anche per i tempi: lunghi, molto lunghi, sostenuti – si fa per dire – da dialoghi che rischiano l’estenuante, dalla ripetizione di informazioni già date, di eventi già noti, quasi a rimuovere il dubbio di non essere stati abbastanza chiari. Per un totale di 176 minuti: tre ore.
Eppure “Fabian”, con i non pochi limiti che ha, è un film che lascia dentro più di qualcosa, e che non si accantona facilmente.
La storia è quella del giovane Jakob Fabian, uomo tranquillo, di giorno impiegato nel settore pubblicitario di una fabbrica di sigarette, di notte, e nel tempo libero, frequentatore fra l’annoiato e il cinico di locali, bordelli, cabaret, atelier di pittura, alberghetti e stanze economiche. Ha un caro amico parecchio benestante, Labude, e conduce un’esistenza tutto sommato distante dalle cose, preferendo, alla partecipazione, il ruolo dell’osservatore distaccato, che guarda la realtà senza giudicare, in maniera fatalistica e con una punta di ironia. Finché un giorno incontra Cornelia, giovane donna sicura di sé, bella, schietta, positiva e aspirante attrice.
Tratto dall’omonimo romanzo di Erich Kästner, piuttosto noto per applicare tecniche cinematografiche come i tagli rapidi allo stile di scrittura, il film ricorre, per mano del regista, agli stessi “trucchi”. Con risultati discutibili: perché passare di punto in bianco dal contemporaneo agli anni Trenta e viceversa, e sono davvero necessari i filmati d’archivio della Repubblica di Weimar, a sostegno e contorno di una vicenda che più personale non si può? Anche i rimandi al Nazismo che verrà (echi di cortei, manifesti ai muri, canzoni) danno l’impressione di qualcosa di incollato a tutti i costi, di posticcio. Perché “Fabian” è prima di tutto e soprattutto una storia soggettiva e insieme universale. In grado di esistere al di là di un determinato periodo storico. Anzi, in qualunque periodo storico. Basti, una per tutte, la figura di Labude. Giovane, bello, ricco e generoso, tuttavia fragile e incapace di reagire alle bordate della vita, che, dopo essere stato lasciato dalla fidanzata, si suicida quando l’Università, per il tragico scherzo di un assistente idiota, gli rifiuta l’ottima tesi in Filosofia.
Una forzatura, questo accostamento fra storie personali e grande Storia, che si avverte ancora più forte nell’inatteso finale. Dove l’inevitabile riflessione sull’inutilità della vita, costretta a chinare la testa davanti alle beffe del destino, viene sovrastata dall’immagine di una catasta di libri in fiamme, preannuncio dei roghi nazisti del ’33.
Comunque, un film che “rimane”.