MILANO, mercoledì 5 ottobre – (di Paolo A. Paganini) Nel 1989, dopo che l’Ungheria aveva aperto i suoi confini con l’Austria, fu demolito il Muro di Berlino, sistema di fortificazione fatto costruire ventotto anni prima dal Governo filosovietico della Berlino Est per impedire la libera circolazione con Berlino Ovest. Era il simbolo della Cortina di Ferro. Praticamente finì con la caduta del Muro, e l’anno dopo fu sancita formalmente anche la riunificazione tedesca.
Quei 28 anni di Muro furono, per la Germania Est, sotto il pugno di ferro sovietico, rappresentarono un angoscioso periodo di capillare controllo di tutti i cittadini, grazie a uno strumento segreto di soppressione della libertà di espressione, di opinione, di movimento. Era la temutissima STASI, la polizia segreta del cosiddetto Ministero della Sicurezza di Stato, creata nel 1950, ispirata al KGB.
Diversa dall’ OVRA, la famigerata polizia segreta dell’Italia fascista dal 1930 al 1943; e dalla Gestapo, la polizia segreta della Germania nazista dal 1933 al 1945, la STASI si basava sullo spionaggio, sulla delazione, sul ricatto. E sulla persecuzione, fisica e psicologica.
La STASI aveva inizialmente arruolato centinaia di tedeschi dell’Est come impiegati e migliaia come informatori, con lo scopo paranoico di controllare tutti i cittadini, il loro comportamento politico, le espressioni in pubblico e in privato, i ruoli professionali, le possibili influenze sovversive a seconda della delicatezza dei loro ruoli. Chi cadeva in disgrazia, quando non perdeva la libertà, perdeva la posizione sociale, il posto di lavoro, diventando così facilmente ricattabili: veniva loro promesso di mantenere la loro posizione, purché facessero gli informatori. Vennero così via via reclutati più di centomila informatori (e oltre mille dipendenti), di diversi stati sociali, a qualsiasi livello, dall’operaio al professore, e in qualsiasi settore del commercio, dell’industria, delle istituzioni pubbliche, persino nelle famiglie. Nessuno sapeva chi fosse l’informatore. Tutti erano sospettabili. Di tutti bisognava diffidare…
Il riferimento a questa truce pagina di storia è qui giustificato, perché lo spettacolo, di cui ci occupiamo, è ambientato a Berlino vent’anni dopo la famosa caduta del Muro, ed è necessario per chiarire e meglio comprendere l’allestimento di poco più di un’ora, in scena al Piccolo Teatro Studio, “Enigma”, di Stefano Massini.
Tratta d’un fortuito – o forse no – incontro tra un uomo e una donna non più giovanissimi. Parlando e interessandosi l’uno all’altro, scoprono che ciascuno forse sta nascondendo il classsico scheletro nell’armadio. Nel caso specifico, l’armadio della loro vita si chiama memoria. Memoria cristallizzata nell’anima, incancellabile, inamovibile, indimenticabile, persecutoria.
Dopo tanti anni dalla caduta del Muro, la domanda che si forma spontanea è: insomma, cosa sono stati quei due, quando la STASI ancora estendeva il proprio dominio malefico su tante anime indifese, sono stati vittime innocenti o cinici criminali?
Cosa che ci guardiamo bene dal rivelare, per non rovinare le sorprese finali.
Se, da una parte, il lavoro di Massini si presenta come uno psicodramma, dall’altra diventa via via anche una filosofica teoresi sul significato di “enigma”, che onestamente ci sembra più un pur funzionale pretesto per allungare il brodo che una reale necessità drammaturgica. Ma non disturba, tanto più che l’uomo, dopo tanti anni, figura ora come un innocuo professore di matematica in pensione, quindi giustificato nelle sue elucubratorie interpretazioni della vita; e la donna, un’ex insegnante di Storia, quindi abituata a una disincantata osservazione dei fatti dell’esistenza.
Per quanto si riferisce a una considerazione più attinente al merito dello spettacolo, diremo che questo “Enigma” di Massini ha pregevoli astuzie drammaturgiche, con un limite connaturato alla sua intrinseca struttura di teatro di parola, da sembrare però più adatto alla radio che non al palcoscenico.
Ma i due “enigmatici” personaggi sanno avvincere. Sono interpretati con incisività, sensibilità e doverosa ambiguità. Da una parte c’è una Ottavia Piccolo in una bella e convincente prova tutta giocata su una continua vigilia di attese. Brava. Dall’altra, un Silvano Piccardi (anche regia) in una misurata, sommessa prova di piccolo uomo sovrastato da una Storia più grande di ogni sua possibile equazione matematica. Bene. E soprattutto complimenti per una recitazione chiara, comprensibile. E senza microfonini.
Pubblico entusiasta. Si replica solo fino a domenica 9 ottobre.