(di Patrizia Pedrazzini) Che cosa lega la Vocazione di San Matteo di Caravaggio e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola? Che cos’hanno in comune quelle mani, quei visi da osteria sui quali si staglia, potente nella fitta penombra, uno squarcio di luce bianca, e il volto madido e stanco di Marlon Brando, quella grande testa rasata, sulla quale scorre lentamente la mano, quei lineamenti che sembrano prendere forma e vita dal buio nel quale sono immersi? E l’antico mito della caverna di Platone, con i suoi prigionieri, il fuoco che getta luce, le ombre proiettate sul muro, verosimilmente, non può forse essere letto come una moderna metafora del cinema? Perché Ultimo tango a Parigi è tutto permeato del colore arancio? E Quarto potere sarebbe stato lo stesso film senza il bianco e nero e le profondità di campo di un direttore della fotografia del calibro di Gregg Toland? E i capolavori del muto? Cosa ne sarebbe stato senza l’Espressionismo tedesco?
Vittorio Storaro, direttore della fotografia tre volte Premio Oscar (per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore), non ama definirsi tale. A suo parere sul set c’è un solo direttore, il regista, e preferisce, per sé, la qualifica americana di Cinematographer, ovvero colui che scrive di cinema. O che lo “illumina”, come lui stesso ha più volte precisato intervenendo, a Milano, alla presentazione del suo ultimo libro, “L’Arte della Cinematografia”, scritto con Bob Fisher e Lorenzo Codelli. Una sorta di rilettura della Settima Arte attraverso gli occhi di 150 grandi autori della fotografia cinematografica nel mondo dal 1910 a oggi. Un incontro che è stato occasione per Storaro, classe 1940, non solo di ripercorrere una carriera che lo ha portato, da ragazzino di 11 anni appassionato di fotografia e di cinema (il padre era un proiezionista della Lux Film) ai più ambiti fasti internazionali, ma anche di parlare, forte di una passione e forse ancor più di una curiosità che mai gli è venuta meno, di quella grande magia che è il cinema, del suo essere linguaggio di immagini, del fascino dell’immagine in movimento (“ero un bambino quando ho visto per la prima volta Luci della città di Chaplin, credo che tutto sia cominciato da lì”). E soprattutto del rapporto fra luce e ombra, dalla scoperta delle intuizioni figurative di Caravaggio (“allora non conoscevo niente di pittura”) allo studio sull’utilizzo dei colori nei dipinti di Leonardo. Fino al simbolismo legato ai colori stessi: il giallo, l’arancio, il rosso del corso solare a evocare l’essere maschile; l’azzurro, il grigio, il bianco della luna e del suo ciclo a definire quello femminile. E, ancora oltre, fino a utilizzare in modo simbolico lo stesso rapporto fra luci e ombre. In un perenne alternarsi fra pittura e cinema, fra arte e arte. E, una volta analizzato, compreso, assimilato tutto questo, fino al bisogno di trovare un equilibrio, che consenta alla conoscenza, se non di essere completa, quanto meno di avviarsi sulla strada della completezza.
Ecco allora che il primo piano sul tagliente profilo, in rigoroso bianco e nero, di Ivan il Terribile nell’omonimo capolavoro del ’44 di Ejzenstein e quello sull’ironico sorriso di Rhett Butler in quella pietra miliare della storia del cinema che è Via col vento approdano a nuove chiavi di lettura e acquistano nuovi valori. No, non sarebbero stati gli stessi, quei film, senza i loro direttori della fotografia, che si chiamavano Eduard Tissé ed Ernest Haller. O meglio, come piace a Storaro, senza i loro “scrittori di luce”.
Vittorio Storaro, luci e ombre, colori e simboli di uno “scrittore di cinema”
26 Febbraio 2014 by