Walter Veltroni perse il padre quando aveva un anno. Ora, a 60 anni, incontra il genitore sul palcoscenico del Parenti

MILANO, giovedì 20 aprile ► (di Paolo A. Paganini) Con lo scorrere degli anni e con il prolungamento della vita, diventa generalmente sempre più largo il divario tra la scomparsa d’un genitore e l’età d’un figlio ormai invecchiato. È triste, ma fa anche tenerezza.
Walter Veltroni, 62 anni, ex segretario nazionale del PD, giornalista, direttore de “L’Unità”, fu il primo a decidere l’accoppiata con storiche cassette di film (ah, l’amore di Veltroni per il cinema!), militante di sinistra, già sindaco di Roma, un curriculum d’importanti riconoscimenti politici e culturali, ora si dedica principalmente a film-documentari (“Quando c’era Berlinguer” e “I bambini sanno”) e alla scrittura. Ultimo suo libro, “Ciao”, del 2015, un libro biografico, incentrato soprattutto sul padre Vittorio, scomparso quando Walter aveva solo un anno.
Papà Vittorio fu un importante ed eclettico giornalista radiofonico e televisivo (la Tv degl’inizi), avventuroso conoscitore di avvenimenti sociali, sportivi e politici, dal dopoguerra al 1956. Conobbe celebrità ciclistiche, Magni, Coppi (e Gino Bartali, quando vinse il Tour de France del 1948, e con la sua vittoria forse salvò l’Italia dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti), ma fu anche creatore di celebri iniziative sociali (“La catena della fraternità” dopo la tragedia del Polesine nel 1951); protagonista d’indimenticabili cronache (come la descrizione del dolore nazionale per lo schianto del Torino nella sciagura aerea sulle pendici del Superga); amico di tutti i grandi della sua epoca, Totò, Alberto Sordi, Mike Bongiorno, Gene Kelly, Nilla Pizzi (vincitrice con “Grazie dei fior” al II Festival di Sanremo nel 1952).
Insomma, un professionista e un uomo curioso, ottimista e irridente, morto a soli 37 anni, dopo aver conosciuto il fascismo e vissuto il secondo rinascimento d’Italia nel dopoguerra.
Morì nel 1956.
Walter, che aveva solo un anno, tenne nella mente e nel cuore il ricordo d’un padre che non conobbe e che ricercò per tutta la vita nei segni terreni da lui lasciati, la moglie, gli amici, i colleghi, le foto, i filmati. Finché scrisse quel biografico “Ciao”, come per impossessarsi per sempre, sangue del suo sangue, dell’inestinguibile ricordo del padre.
Ora, tutto questo è in scena al Teatro Franco Parenti (alla prima presente l’Autore), dove s’immagina l’incontro tra Walter e il padre Vittorio. Un incontro imbarazzante, tra il vecchio figlio sessantenne e il giovane padre trentasettenne. In un’ora e venticinque senza intervallo, ci sono momenti di toccante commozione. Chi ha amato il proprio padre sa cosa vuol dire. Sul finire, l’abbraccio fra i due, abbraccio che non c’è stato in vita, diventa addirittura lancinante.
Eppure, c’è qualcosa che non funziona. Non funziona, in un certo senso, la teatralità. L’idea – letteraria e drammaturgica – è di per sé stupenda. Ma qui, ora, in scena, c’è un eccessivo dispendio agiografico, che il regista Piero Maccarinelli ha generosamente assecondato (seppur, onore al merito, risparmiandoci ogni cedimento melodrammatico). Si parla soprattutto del padre Vittorio. Walter, come intimidito, s’è messo pudicamente in disparte. La stessa interpretazione di Massimo Ghini (il figlio Walter), trattenuta e sofferta, e quella di Francesco Bonomo (papà Vittorio), estroversa de assetata di vita, asseconda ed accentua il divario tra i due. Ciò rimandandoci all’inizio di quanto scrivevamo. Ma diventa sconcertante quella vaga aria da gigolò del giovin padre anni Cinquanta, tirato a lucido e imbrillantinato, che non risponde agli stereotipi dei nostri ricordi. Inoltre, la mancanza di stupore del figlio che incontra il padre, dopo aver conservato per tutta la vita perfino i suoi indumenti, ci è parsa un po’ mortificante. Che diamine, se l’è trovato improvvisamente davanti, quel padre cercato per tutta la vita. Inoltre, il giudizio critico del figlio per quel giovane padre fascista poco più che ventenne, quando tutti allora, Figli della Lupa, Balilla eccetera, ne erano condizionati fin da bambini, è impietoso ed eccessivo. Certo, lui forse avrebbe voluto un padre eroe della Resistenza, ma, comunque, dopo il ’43 s’è ampiamente riscattato prodigandosi nell’aiutare partigiani fuggiaschi e antifascisti braccati.
Ma non dimentichiamo che lo spettacolo vuol mettere soprattutto a confronto due Italie, due generazioni, due modi di essere: uno generoso, altruista, partecipe, idealista e solidale (quello del dopoguerra), l’altro avido di soldi, di benessere e di potere (dei giorni nostri).
E, in ciò, lo spettacolo è perfettamente riuscito.
E, allora, che volete di più?
Applausi a più chiamate alla fine, con lo stesso Veltroni in scena per i ringraziamenti.
Si replica fino a domenica 30 aprile.