(di Patrizia Pedrazzini) Polonia, 1949. Il Paese sta cercando con grande difficoltà di riemergere dalla guerra. Nelle campagne non c’è elettricità. Varsavia è ancora un cumulo di macerie. Wiktor (Tomasz Kot) è un pianista e arrangiatore che gira per i piccoli centri agricoli in cerca di canti agrari e canzoni tipiche. Personalmente, ama il jazz (proibito dal comunismo), tuttavia lavora per mettere in piedi un gruppo musicale folkloristico, il Mazowske. È un uomo colto, discreto e malinconico, un intellettuale di città, e lo stalinismo gli va stretto. Zula (Joanna Kulig) è una ragazza povera dal passato oscuro che, fingendosi contadina, si presenta a un’audizione, per poter entrare a far parte del gruppo folk. Sa cantare e ballare, è bella e sfrontata, e si capisce che deve essere stata in prigione per aver forse ammazzato il padre che abusava di lei (“Mi confondeva con la mamma, così ho usato il coltello per spiegargli la differenza”).
“Cold War”, del regista Pavel Pawlikowski (Oscar al miglior film straniero per “Ida”) è il racconto, lungo un arco di quindici anni, dell’amore impossibile, passionale e tormentato, fra due esseri destinati a lasciarsi e a riprendersi, a non capirsi eppure ad attrarsi: come coppia, un disastro totale, tuttavia obbligati dalla sorte, come in un romanzo d’appendice ottocentesco, a non stare mai insieme e contemporaneamente a imbattersi sempre l’uno nell’altra. Dalla Polonia a Berlino Est, a Parigi, a Spalato, e poi di nuovo a Parigi, e ancora in Polonia. Finché, distrutti dalla vita, dagli errori, dalle scelte sbagliate, lei alcolizzata, con un figlio e una carriera ormai finita, lui appena uscito da una colonia penale, dove gli hanno mutilato una mano, per cui non può più suonare, non decideranno di riprenderselo, il loro destino, e di provare, faticosamente, a ricominciare.
Girato in un bianco e nero da Guerra Fredda, duro, rigoroso, eppure immensamente romantico (la soffitta bohémienne affacciata sui tetti di Parigi, il ballo di lei ubriaca sul tavolo del bistrot, l’asprezza di una Varsavia che “dicono sia la Parigi dell’Est”), sorretto da una colonna sonora bellissima e struggente, “Cold War” è un film intimo eppure corale, nel quale l’apparente freddezza emotiva con la quale il regista racconta la storia di Wiktor e Zula non fa che mettere ancora più in risalto i drammi interiori, i caratteri, la distanza culturale, dei due protagonisti: lui sempre più debole e “vinto”, tutto sigarette e locali, lei sempre più vittima dei propri alti e bassi, e di un orgoglio che la fa costantemente uscire dai binari. E poi c’è la Polonia, terra anch’essa di contrasti, con il suo silenzio e la sua mai sopita passione, la miseria e la determinazione di un popolo vittima prima del nazismo, e poi del comunismo, eppure mai assimilato. Così la storia d’amore non può prescindere dalla storia del Paese, anzi. È come se la terra d’origine agisse da silenzioso, tuttavia irresistibile, richiamo, nei confronti di quei due figli che se ne sono allontanati. Occorre tornare, per ritrovarsi e, forse, ricostruire. Sotto quell’albero, vicino alle rovine di una chiesa ortodossa, dove per Wiktor e Zula tutto ha avuto inizio.
Premio per la migliore regia all’ultimo Festival di Cannes.
Wiktor e Zula, una struggente storia d’amore. Nella Polonia della Guerra Fredda, il destino di due amanti. E di una terra
18 Dicembre 2018 by