Zingaretti al Piccolo. Mezzo secolo di storia in uno scabroso testo di amore omosessuale. Dalla clandestinità all’ufficialità

16-11-16-the-pride-fotoMILANO, mercoledì 16 ♦ (di Paolo A. Paganini) Tutte le cose, arti, mestieri eccetera, hanno un loro linguaggio. Anche i sentimenti hanno un loro linguaggio, stemperato o accentuato dalla cultura, dalle abitudini gergali o popolari e, soprattutto, esaltato o condizionato dal ritegno, dal pudore o dal formalismo o dall’ipocrisia.
Per esempio, un’espressione universalmente compresa e accettata come “Ti amo” un settentrionale non la dirà mai, né alla moglie, né all’amante, né alla morosa, né a un figlio. Un milanese dirà “Te vœuj ben”, o, al massimo della confidenza, “Car el mè ben”. Ma “Ti amo”, col cavolo!
Questo per dire che “The Pride”, di Alexi Kaye Campbell, giunto al Piccolo Teatro Strehler, interpretato e diretto da Luca Zingaretti, con disinvolta impudicizia, o temerario eroismo, o coraggiosa libertà espressiva, o velleitaria sfida, o orgogliosa onestà celebrativa – ciascuno la pensi come crede – parla appunto di “orgoglio”, che nel termine “Pride” santifica proprio l’orgoglio dell’appartenenza gay, insieme con la libertà di un uomo di dire a un altro uomo “Ti amo”, come avviene, peraltro, anche sul palcoscenico della vita. Che poi sia difficile risolvere nell’indifferenza i propri tabù, le proprie remore morali o – ebbene sì – le proprie ipocrisie, è tutta un’altra musica. Così come è un’altra musica vedere ora Zingaretti in concupiscenza con un altro uomo, a scapito dei cliché mentali che ci eravamo fatti quando consideravamo per l’eternità l’amore del Commissario Montalbano per la fedele Livia negli sceneggiati di Camilleri.
In questo “The Pride” si saltabecca alternativamente, con qualche incomprensibile sbandata sul piano della narrazione, su due piani cronologici distinti e diversi, dalla Londra del 1958 alla Londra del 2015. Quello che era tabù e reticenza mezzo secolo fa è diventato prassi normale e accettata al giorno d’oggi. L’idea era di per sé interessante, coinvolgendo sia la morale sia un più vasto discorso sociologico, comportamentale, addirittura politico. Ma rimane nel limbo delle buone intenzioni. Rimane, invece, il lento, faticoso processo di assimilazione o assuefazione morale, passando, nello spettacolo, dal rifiuto dell’omosessualità alla sua finale e conclusiva accettazione, pur adombrando polemicamente l’ipotesi dell’omosessualità come vizio.
In una scena torbida e crudele, il Commissario di cui sopra si rivolge a una clinica privata per risolvere con l’oblio il proprio vizietto, come se si trattasse d’una malattia, o del vizio del gioco, o dell’alcool, o delle droghe. Viene sottoposto a una cura già collaudata con gli alcolisti e con i tossici: il malcapitato deve continuamente dedicarsi all’attenzione intensiva di immagini riguardanti l’amato brene. Contemporaneamente, si iniettano al paziente sostanze vomiche per scatenargli, per associazione, il rifiuto del vizio, lasciandolo poi meditare sui propri liquidi.
In due tempi (uno di un’ora e quindici, l’altro di 45 minuti), lo spettacolo, di per sé ostico, talvolta indisponente, ha momenti di coraggiosa tenerezza e di felice leggerezza comica, che il pubblico (ormai ha superato la distinzione fra il “Ti amo” e il “Te vœuj ben”) ha dimostrato di accettare con allegra indifferenza.
Cordiale e generoso tributo di applausi per tutti, alla fine, da Luca Zingaretti a Valeria Milillo, a Maurizio Lombardi, a Alex Cendron, i quali, tuttavia, per i limiti acustici del teatro o per un non accurato registro vocale (non hanno microfonini!) non sempre usano voce e diaframma con chiarezza.
Si replica fino a domenica 4 dicembre.

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