(di Paolo A. Paganini) Campagna, maledetta campagna. Vuoi mettere la città? Viene in mente Gaber, quando, con gioiosa ironia, lanciava la sua specie di inno: “Vieni vieni in città, che stai a fare in campagna… Come è bella la città”.
Ora, il passaggio è brusco, ma lo stesso Cechov, nei suoi drammi di teatro realista, di teatro d’atmosfere, era d’accordo. Pensa al “Giardino dei ciliegi”, pensa alle “Tre sorelle” (A Mosca! A Mosca!), pensa a “Zio Vanja”. Ecco, Zio Vanja, appunto. Visto a Milano, al Piccolo Teatro Studio, in una scenografia racchiusa sotto un tetto di fresche frasche tra frondosi cantar di cicale nell’afa estiva della campagna russa (ma potrebbe essere una bassa lombarda o veneta, non cambierebbe). E, lì sotto, ambiente comune (veramente singolare!), attori e pubblico vivono la tragedia delle speranze deluse, in quella sciagurata campagna, fatta d’inedia, di passioni sopite, d’impotenza, d’incapacità di vivere, dove tutto diventa un insulto alle aspirazioni di una vita ideale e irrealizzabile. Solo la follia, forse, potrà salvare dal pantano delle anime, oppure un colpo di testa. O, più facile, un colpo di pistola per metter fine al naufragio degli ideali, dei sentimenti (“Ivanov”), oppure per far vendetta da tante frustrazioni e umiliazioni (“Vanja”). Tutto inutile.
Alla fine, nell’arida illusione d’un futuro migliore, tutto riprecipiterà nell’angoscia, nell’inerzia, nel letargo delle anime. E così sia, maledetta campagna.
“Zio Vanja”, alla fine dell’Ottocento, la descrisse come luogo emblematico di umane miserie, di alcoliche illusioni, dove tutto rimane in bilico nella statica fissità d’un eterno immobilsmo. Finché non arriva un’incognita a distruggere gli equilibiri. Spesso l’incognita arriva dalla città. E qui, in questa campagna di Vanja, arriva dalla città il cognato professore in pensione, prima ritenuto un dio e ora un miserabile opportunista, con la giovane affascinante seconda moglie, la quale sconvolgerà anime e abitudini. Meglio infine che la sconcertata coppia cittadina eviti altri colpi di pistola, faccia le tende e se ne torni in città.
Soli, disperati,delusi, frustrati, rimarranno lì, come sempre, lo zio (Vanja) e la zitella nipote… Le cicale torneranno a cantare e loro a lavorare, fino a stordirsi, fino a dimenticare. Forse.
E vengono positivamente storditi anche gli spettatori. Nel gorgo feroce di queste anime realisticamente denudate, in quasi due ore senza intervallo, Lorenzo Gleijeses è un Vanja con le stigmante della sconfitta fin dall’inizio, quando sbava di voglie per la giovane moglie del professore, la quale ha l’imprudente fascino di Fiorenza Pieri, mentre il tronfio professore (centro motore del dramma) è un Graziano Piazza di misurata e patetica antipatia. Maria Alberta Navello è la figlia di primo letto del professore, la quale è inutilmente innamorata da sei anni del prestante dottore (Ivan Alovisio), anche lui irretito dal fascino della seducente troppo giovane moglie del vegliardo e tirannico prof. La regia è di Emiliano Bronzino. Ha concertato un’operazione da finissimo regisseur. Tanto di cappello. Ma diamo anche giusto merito alla magnifica duttilità dei cinque interpreti. Un plauso particolare a Gleijeses (molto caricato ma convincente), a Ivan Alovisio (fascinosa presenza virile) e a Maria Alberta Navello (una intensa, vibrante, sofferta, rassegnata nipote). Cordialissimi applausi finali (anche se ci saremmo aspettati qualche consenso anche a scena aperta. Ah, una volta, la sensibilità e l’intelligenza della claque!).
“Zio Vanja”, di Cechov, regia di Emiliano Bronzino. Al Piccolo Teatro Studio, Via Rivoli 6, Milano. Repliche (chissà perché) solo fino a domenica 8.
“Zio Vanja”, l’inferno della campagna, tra anime disperate nell’inedia d’un futuro senza speranza
5 Giugno 2014 by