“Zio Vanja” secondo Konchalovsky, e la rassegnazione cechoviana diventa grido di dolore e di ribellione

zio-vanja-konchalovsky definita(di Paolo A. Paganini) Un paio di settimane fa, a Milano, abbiamo visto “Zio Vanja” di Cechov, al Piccolo Teatro Studio, in una versione ristretta che ci era molto piaciuta (con Lorenzo Gleijeses, regia di Emiliano Bronzino). Ora, al Napoli Teatro Festival, abbiamo visto al Mercadante, con qualche legittima curiosità, l’allestimento di “Zio Vanja”, in russo, con scene suppellettili oggetti russi, con costumi russi, con attori russi, con regia russa di Andreij Konchalovsky. E, ovviamente, parlato in russo (con sopratitoli italiani).
I confronti sono sempre antipatici. Ce ne asteniamo come sempre. Ma la nostra curiosità era giustificata soprattutto dal desiderio di una verifica. Come per Shakespeare, tanto per capirci, quando sembra che soltanto gli inglesi possano fare Shakespeare. Abbiamo voluto verificare se analogo discorso vale per Cechov, se cioè solo i russi sono in grado di cogliere alla radice tutte le sfumature e le profondità di Cechov.
Mi si consenta un salto cronologico, ma pertinente. Dopo aver visto, in passato, l’indimenticato “Giardino dei ciliegi”, di Strehler, e adesso “Zio Vanja” di Konchalowsky, mi sono sembrati entrambi d’identica matrice. In entrambi la puntigliosa attitudine di volersi dedicare a una continua, esasperata ricerca semantica, oltre ogni apparenza, quasi un volersi addentrare in una specie di edizione critica, per scoprire cosa c’è dietro alla battuta, per evidenziare cosa nascondano in realtà un gesto, una flessione, un’intonazione, addirittura che valore possa avere una virgola. Su questo piano, con Strehler o con Konchalovsky, siamo in un’unica patria di valori, in uno stesso ordine di grandezza, di talento, di creatività (anche se un po’ più smagato e rivoluzionario Konchalowsky).
Insomma, il riferimento a Shakespeare non sta in piedi. E, per tornare al riferimento iniziale, i due ordini d’allestimento, del recente “Zio Vanja” milanese di Emiliano Bronzino e di questo visto ora al Mercadante, sfuggono a ogni possibile confronto, essendo, il primo, una riuscita sintesi a cinque personaggi giocata sul dramma dei perdenti e della rassegnazione, un bel quadro d’autore, ma con un limitato impianto registico; quest’altro invece è un michelangiolesco affresco, dove i personaggi originali sono recuperati, compresi dunque la balia, la vecchia madre incartapecorita e il parassita proprietario terriero caduto in disgrazia. Un concertato di ampio respiro, di articolate linee critiche e di scavo psicologico, tant’è che ne è emerso, in limpida chiarezza, un acuto paradigma di caratteri e di comportamenti, come uno studio socio-neurologico dai precisi caratteri e di nette categorie.
Per esempio: il Dottore = il futuro; il Professore = il passato; Vanja = l’ottusità del presente; la nipote Sonja = la cecità delle illusioni; la vecchia madre = l’inutile passatismo; la Balia = la servitù della gleba eccetera.
L’altro curioso elemento in emersione, palese in Cechov, ma qui ancor più esplicito: la trasparenze dei sentimenti. I personaggi non nascondono niente, grandezze e miserie dell’anima sono subito esplicite, non ci sono colpi di scena, non c’è niente da spiegare, è la vita così, il realismo cechoviano non ha mai scelto vie di fuga, ha sempre affrontato in piena luce la sostanza dei sentimenti, la realtà dei fatti. Addirittura con “veggenza”, come spiegheremo meglio domani, quando parleremo anche di “Tre sorelle”.
Ora, per non farla troppo lunga, ci pare che registicamene l’atteggiamento “rivoluzionario” di Konchalowsky si possa esprimere in due trovate, che ci paiono geniali: proiettare, nei cambi di scena a vista, frenetici e strombazzanti traffici cittadini, tranches de vie attuali, per immergersi subito dopo nella silente e mediocre campagna russa, tra quell’impotenza di vivere, in quell’impantanata, acida morta gora dei sentimenti fin de siècle, senza interessi, senza dignità (impersonata da Zio Vanja); e, infine, la scena conclusiva, nella quale Konchalovsky anticipa e fa sue le speranze del Dottore: no, non c’è più rassegnazione, Vanja butta all’aria le sudate carte dei conti di famiglia e la nipote Sonja ha – finalmente – una crisi nervosa, con la quale, rabbiosamente, la rassegnazione viene sostituita da un’imprecazione di ribellione. Da brividi.
Applausi interminabili alla fine per tutti, compreso Konchalovski, e soprattutto per gli otto magnifici interpreti, dei quali segnaleremo almeno l’intensa presenza di Alexander Domogarov (il Dottore), di Pavel Derevyanko (Vanja), di Yulia Vysotskaya (Sonja) e dell’incantevole e destabilizzante “seduttrice” Natalia Vdovina.